LECTURA DANTIS

di Nicola Pice

Qualche giorno fa dalle colonne dell’Avvenire il regista toscano Federico Tiezzi così riferiva:
«Mi figuro che le rappresentazioni per il settimo centenario della morte di Dante si butteranno a capofitto sull’Inferno che il luogo comune ritiene accattivante. Io voglio invece evitare ora quelle atmosfere che saranno inflazionate e soprattutto già battute e superate dalla realtà; non voglio riportare lo spettatore a rivivere esperienze che in quest’ultimo anno hanno già avuto connotati ampiamente infernali, temo un effetto di rigetto. Piuttosto faccio il Purgatorio perché è la cantica dell’amicizia, dell’arte e della pietas, affollata di musicisti, pittori, poeti che discorrono di fede, di fraternità e di arte che è la strada per la salvezza. Il Purgatorio è una palestra ascetica dove tutti pregando, come diceva Sant’Agostino, creano la speranza. E proprio di tutto questo oggi c’è più bisogno”. Federico Tiezzi ha perfettamente ragione. Se la Divina Commedia è il grande poema del ritorno dell’umanità e se esso va letto in futurum, davvero la cantica del Purgatorio ci fa sentire ancor più figli del nostro tempo, figli di Dante, che “d’antico amor sentì la gran potenza” (Purg. XXX), immedesimandosi molto con tutti quelli che incontra, condividendo i loro stati d’animo ed esaltando i valori in cui essi credono quali l’amicizia, l’arte, l’affetto. Il poeta Luzi si sentiva maggiormente attratto dal Purgatorio.

Quando per il laboratorio teatrale I Magazzini di Prato nell’ambito della trilogia teatrale dedicata proprio da Tiezzi alla riscrittura scenica della Commedia dantesca accettò di curare la drammaturgia di questa cantica, mentre Edoardo Sanguineti sceglieva l’Inferno e Giovanni Giudici il Paradiso, spiegò in una intervista che “La condizione purgatoriale è certamente la più prossima da me espressa in raccolte poetiche quali Primizie del deserto, Onore del vero, Dal fondo delle campagne, Nel magma. È venuta un po’ da sé e penso che la condizione purgatoriale sia la condizione umana per eccellenza: è in fondo un’esperienza di dolore e di risarcimento possibile che noi facciamo tutti i giorni in corpore vivi, quindi è sicuramente anche la più continuativa nel tempo».

Il Purgatorio è il luogo dell’attesa e della speranza, l’attesa e la speranza di una rinascita dopo uno stato di sofferenza, di dolore, di pena. Dopo l’avventura infernale, il riapparire delle stelle (“e quindi uscimmo a rivedere le stelle”) è il primo segno del riapparire di una vita nuova nel segno della grazia divina, e gli albori del Purgatorio, con il loro “dolce color d’oriental zaffiro”, sono tutt’uno con la speranza delle anime purganti.

Nel canto I del Purgatorio, dopo l’orrida tenebra infernale, la prima visione nel nuovo regno è d’un colore azzurro che riempie di sé, sino al giro dell’orizzonte, la vastità ancora notturna: tutta l’aria è impregnata d’azzurro: “Dolce color d’orïental zaffiro / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro”. Dante insiste non poche volte sul senso di pace che emana da quella visione.

Scalare la montagna del Purgatorio si pone come ascesa verso un Dio che è luce, e che quindi illumina. Il secondo regno è proprio quello di Dante perché in esso egli si sente pariter con le varie anime che incontra. Se le anime dell’Inferno sono religiosamente troppo più basse di lui, se pur alcune possono essere da lui umanamente apprezzate, e le anime del Paradiso troppo più alte e quindi dinanzi ad esse si pone naturalmente in atteggiamento reverente e subordinato, aspettandone non confessioni umane, ma di carità e d’illuminazione intellettuale e morale. Nel Purgatorio, invece, Dante è tra i suoi pari e sa di dover presto tornare per rimanervi a lungo. Nelle anime di questo luogo Dante vede sé stesso quale peccatore e si apre alla speranza di essere avviato a salvezza. L’atteggiamento di Dante pellegrino rispetto a questi suoi “uguali” e compartecipi di sorte non può disporsi allo sdegno, alla pietà, alla violenza, com’era avvenuto nei confronti dei dannati dell’Inferno, ma è necessariamente uniforme: di fronte ad anime sofferenti, ma comunque destinate alla salvezza eterna, non ci può essere che dolore e sentimento di profondo rispetto.

È difatti il Purgatorio un luogo in cui vige la dialettica di comunione e si coglie “l’appassionata riverenza per i valori umani”, un luogo in cui echeggiano canti e preghiere corali. Dunque un luogo che svela uno stato d’animo comunitario di umiltà e di smarrimento, un luogo che ricorda a tutti che omnes peregrini sumus, ossia la nostra condizione umana e quindi il bisogno di comportarci “come gente che pensa a suo cammino”. In questo luogo non vige l’orgogliosa affermazione di sé (“l’usato orgoglio”) che porta ribellione e disordine, ma l’umiltà e l’armonia del gruppo e la comune preghiera corale.

Il Purgatorio è il luogo di Catone l’Uticense con il suo inno alla libertà e il ricordo della “sua” Marzia e di Casella con il suo evocare il ricordo dei canti d’amore che solevano placare tutte le inquietudini, canti che risvegliano in Dante i miti culturali della lontana giovinezza e lo spingono a glorificare l’arte come mediatrice di spiritualità: Amor che ne la mente mi ragiona / cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona (Purg. II, 112-114). Il canto rallenta la salita al monte delle anime da poco approdate sulla riva del purgatorio e quindi il loro cammino verso la purificazione, sicché imperioso si leva l’ammonimento di Catone a richiamare alla realtà con la similitudine dei colombi, che, come ben vide il De Sanctis, ben illustra la condizione delle anime del purgatorio in quell’obliarsi della coscienza individuale in uno stesso spirito di carità e di amore. Nell’Inferno vi sono grandi individui, ma non vi sono cori: l’odio è solitario. Nel Purgatorio non si hanno grandi individualità, ma invece vi sono cori: l’amore è simpatia, dualità, un’anima che cerca un’altra anima.

Dopo la riflessione sulle profondità del mistero divino inaccessibile alla ragione umana, esiste difatti un limite imposto alla ragione naturale – State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria – ecco l’incontro di Dante con Manfredi regale nella sua aristocratica bellezza: al di là del sentimento d pietà, che provoca in ciascuno di noi con quella immagine delle sue povere ossa bagnate dalla pioggia e mosse dal vento, Manfredi dice la vanità degli odi umani e la fallibilità del giudizio umano.

Belacqua, nella sua iconica postazione di stare pigramente seduto abbracciando le ginocchia e tenendo il viso tra esse, dà voce al ricordo che porta a luoghi e tempi lontani, facendosi espressione del bisogno dell’uomo di vivere di affetti e di conversazioni.

Ecco la fragilità di una donna, Pia dei Tolomei, che con voce sommessa chiede a Dante di volerla ricordare nel mondo dopo aver riposato della lunga via percorsa attraverso i regni dell’oltretomba, una voce, colma di echi e allusioni segrete, che suggestivamente pian piano si spegne.

La figura di Sordello avvolta dal suo silenzio e dalla sua solitudine non esita a trasmettere il suo calore affettivo nell’abbraccio a Virgilio e ignora differenza di tempi e civiltà sì da far scattare quella famosa invettiva contro un’Italia lacerata da violenze cittadine e lotte continue.

Poi Nino Visconti esule dalla patria da innocente si apre all’afflato amicale con l’appassionata insistenza del “bel salutare” e l’affettuosa sollecitudine per la sorte dell’amico: Dante vede in lui non tanto un amico quanto un fratello perché, come dice Steiner, “fra quanti vincoli stringono l’uomo all’uomo, niuno ve ne ha di più saldo di quello costituito da avventure virilmente patite per comuni ideali”.

La celebre parafrasi del Pater noster, fortemente contrassegnata dalla consapevolezza dei limiti umani e dal desiderio di dolci sospiri, con l’invocazione a non metterci alla prova con le tentazioni del demonio: Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, /ma libera da lui che sì la sprona.

Ed ecco Marco Lombardo dichiarare la sua profonda conoscenza del bene e del male degli uomini e spiegare come la causa del male risieda in noi stessi: Ben puoi veder che la mala condotta / è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, / e non natura che ’n voi sia corrotta.  

Poi l’incontenibile gratitudine di Stazio nei confronti di Virgilio per la sua Eneide “la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando”. Quel poema gli era stato maternamente benefico: la sua poesia prese alimento dalle scintille di quella fiamma divina. Quelle faville riuscirono a scaldarlo così come una madre scalda il suo bambino, stringendolo al petto, e si trasformarono nel lume che rischiarò nelle tenebre i timidi passi dei primi cristiani, un lume calmo e consolatore che indirizza il cammino dell’umanità e proietta il dolore quotidiano nel melodico rituale della preghiera. I versi “Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte” si fanno celebrazione della poesia di Virgilio e di Dante.

Forese Donati, l’amico più caro durante il periodo della vita dissoluta di Dante, si fa riconoscere dalla voce: stupore e gioia del ritrovamento inatteso di un amico di tempi gaudenti, l’uno all’altro legato da vincolo amicale quando entrambi si sfidavano a tenzoni poetiche segnate da attacchi osceni e salaci. In questo incontro il tono giocoso e salace lascia il posto alla felicità e alla commozione tra i due: “per Forese l’inaspettata apparizione di Dante non è un miracolo da contemplare, per così dire, nella sua astrattezza impersonale…ma è una grazia personale…È un primo tocco della solidarietà e dell’affetto che legano i due e che costituiscono la tonalità principale del loro incontro” annota Bosco. Forese dice tutto il suo delicato affetto per la “sua” Nella, si fa moralista sdegnoso contro le sfacciate donne fiorentine e contro la politica fatta di ruberie e malefici del fratello Corso, responsabile anche della forzata scelta di sposarsi imposta alla sorella Piccarda.

Lo slancio affettuoso che colora gli incontri con maestri e amici nel Purgatorio si fa ancor più significativo con Guido Guinizelli. La devozione filiale che Dante nutriva per lui spiega, dopo il forte impulso di abbracciarlo, il suo sgomento e la sua pietà per la pena espiatrice cui è sottoposto, ma subito si risolvono in certezza della sua salvazione. La commozione sincera si esplicita ancor più col testimoniare il profondo valore affettivo e morale del rapporto di poeta a poeta. Il magistero culturale di Guinizelli agli occhi di Dante assume la dimensione di un insegnamento morale: è il suo caposcuola, ovvero si è formatto alla “scuola” della sua amicizia e vede in lui il “capo” cioè il padre, l’iniziatore nel senso di un’intima idealità politico-religiosa. Di qui il far luce sul complesso rapporto tra arte e religione, tra intuizione poetica e rivelazione religiosa.

Ecco poi le figure femminili della seconda cantica che si impongono. Matelda, come figura fiabesca perché è figura di quella che fu la condizione umana prima di essere contaminata dal peccato originale. In essa la virtù non presuppone il dolore, ma si atteggia nelle forme della bellezza, della gioventù perpetua, della grazia spontanea. Matelda è vista nell’atto di cogliere fiori, di camminare a passi di danza, di sorridere amabilmente: sono tutti atti che esprimono il modo di vita e la felicità della “prima gente” nel paradiso terrestre. Leva il suo canto “Delectasti” che è un canto d’amore e di lode al Creatore, e questa vista di lei desta l’amore nell’uomo che la sta fissando da oltre il fiume, sprigionando in lui la stessa fiamma di amore che avvertì Leandro per la sua Ero separata dal mare sulla sponda opposta.

Poi in cima alla montagna del Purgatorio l’incontro con Beatrice, “vestita di color di fiamma viva”. Viene in una processione che allegoricamente rappresenta il manifestarsi dello spirito di Dio tra gli uomini. Dante “d’antico amor sentì la gran potenza”, ma Beatrice non è più ormai la donna idealizzata nella Vita nova, è la Beatrice che ha conseguito la felicità perfetta. Per Dante la felicità perfetta sta nella vita contemplativa: lei irradia la luce, la beatitudine eterna nel modo in cui la gioia interiore dello spirito diventa luce nell’occhio dell’uomo. Essa incarna figuralmente il ricongiungimento dell’anima con Cristo, è “splendor di viva luce eterna”. E il poeta è anche figura di ogni anima che si liberi dalla schiavitù del peccato: staccandosi dal male ci si ricolloca sulla via indicata dal Vangelo.

Quale lezione ci lascia oggi il Purgatorio di Dante? Col suo farsi compagno di strada, ci insegna la bellezza dello stare in compagnia degli altri, la straordinarietà del camminare insieme agli altri, la condivisione del senso di prossimità e di fraternità. Uscire da sé stesso per farsi vicino agli altri, stare in mezzo agli uomini e non di fronte agli uomini. Un grande auspicio per il futuro, oggi che la pandemia da Covid-19 ha messo in luce le nostre false sicurezze e i nostri falsi materialismi, oggi che scopriamo sempre più che “nessuno si salva da solo”. È l’amore che costruisce ponti. Dante è ancora qui, ancor oggi rimane per noi una stella polare.

P.S. Questa nota si arricchisce con la riproduzione di alcune incisioni di John Flaxman, lo scultore e disegnatore inglese che durante il suo soggiorno in Italia (1787-1794) realizzò i raffinati disegni per la Commedia, contrassegnati da essenzialità e astrazione lineare. Essi sono estratti da una edizione ottocentesca facente parte del “Fondo Filippo e Lucia Sara Palmieri” conservato presso la Fondazione De Palo-Ungaro e saranno messi in mostra nel prossimo maggio 2021.

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